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Il 9 giugno 1905, un giovane Albert Einstein pubblicò sull’autorevole rivista scientifica Annalen der Physik un articolo sulla generazione e la trasformazione della luce, destinato a rivoluzionare la storia della fisica moderna. In questo articolo, Einstein proponeva un’ipotesi per spiegare un fenomeno ancora poco compreso: l’effetto fotoelettrico, scoperto nel 1887 dal fisico tedesco Heinrich Hertz.
Durante i suoi esperimenti sulle onde elettromagnetiche, Hertz aveva osservato che la luce ultravioletta facilitava la formazione di scintille tra due elettrodi metallici. Qualche anno dopo, Philipp Lenard mostrò che i metalli irradiati da luce ultravioletta emettevano elettroni solo se la luce superava una certa frequenza. Ma perché accadeva? La fisica classica non riusciva a spiegarlo.
Einstein, riprendendo l’idea dei quanti di energia, introdotta da Planck per spiegare la radiazione del corpo nero, la applicò direttamente alla luce stessa: ipotizzò che la luce fosse composta da unità discrete, ciascuna con energia proporzionale alla sua frequenza. Questi quanti, oggi noti come fotoni, potevano trasferire energia agli elettroni di un materiale. Se l’energia superava una certa soglia, la cosiddetta “funzione lavoro”, l’elettrone veniva espulso.
Questa interpretazione sfidava apertamente la teoria classica della luce come onda continua e offriva una spiegazione precisa dei risultati sperimentali. Einstein metteva così in discussione la visione esclusivamente ondulatoria della luce, aprendo la strada al concetto della natura duale della luce: quel comportamento onda-particella che sarà confermato e approfondito negli anni successivi dagli esperimenti di Compton.
La comunità scientifica, inizialmente scettica, accolse con cautela la proposta, che solo negli anni seguenti venne confermata sperimentalmente. Nel 1921, Einstein ricevette il Premio Nobel per la Fisica proprio per questa intuizione, che oggi rappresenta una delle prime prove del comportamento quantistico della radiazione elettromagnetica. Anche se il termine “fotone” fu coniato nel 1926 da Gilbert N. Lewis, l’idea alla base era già presente nel lavoro di Einstein del 1905.
![Albert Einstein, Library of Congress, Prints & Photographs Division, photograph by Harris & Ewing, [reproduction number, e.g., LC-USZ62-12345]](/sites/default/files/inline-images/Albert%20Einstein.jpg)
A oltre un secolo di distanza, l’effetto fotoelettrico è alla base dei fotorilevatori, che ritroviamo in diverse tecnologie moderne: i sensori di immagine usati nelle fotocamere digitali; i pannelli solari fotovoltaici; le cellule fotoelettriche per l’automazione (porte scorrevoli, cancelli automatici, etc.); i sensori di fumo negli impianti antincendio; gli ossimetri usati per misurare la saturazione di ossigeno nel sangue. Nei pannelli fotovoltaici, per esempio, la luce solare, assorbita dal materiale semiconduttore, libera elettroni, che possono poi muoversi all'interno di un circuito elettrico. Una dimostrazione concreta di come un’intuizione teorica possa trasformarsi in innovazione tecnologica.
Autori: Irene Schillaci; Irene Marzoli
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